venerdì 19 febbraio 2010

Conoscenza e Iniziazione nella Scuola Pitagorica



Conoscenza e Iniziazione nella Scuola Pitagorica
(Relazione del Convegno)
Prof. Enzo Ferrari

Premessa
Conoscenza e iniziazione, sul piano puramente terminologico, sono concetti diversi, significando il primo l’oggetto dell’atto del conoscere ed il secondo una possibile modalità con cui si conosce.
I due concetti si coniugano quando, per accedere alla conoscenza, sia richiesto di essere iniziati ad un metodo o ad un linguaggio, in tal modo restringendo la cerchia dei fruitori del conoscibile.
A partire da Aristotele, un sistema di conoscenza è definito “acroamatico” se, anziché essere divulgato erga omnes (conoscenza essoterica), venga riservato a destinatari ben individuati realizzando una forma di conoscenza esoterica, che gli antichi sapienti preservavano con la trasmissione orale. Pure nel linguaggio attuale si dice riferita “all’orecchio” una comunicazione che debba rimanere segreta e sconosciuta a chi non l’ha ricevuta.
Oggi la conoscenza esoterica non ha più motivo di essere acroamatica, giacché la tecnologia consente in vari modi di divulgare la parola pronunciata al pari di quella scritta. Non è più la modalità della comunicazione, ma il valore intrinseco del conoscibile a caratterizzare la conoscenza iniziatica, che si impernia sul "segreto" da non intendere più come limite alla conoscibilità bensì come secretum (da secernere), nel senso della conoscenza che, sintetizzandosi nell'interiorità di ciascun individuo, richiede un percorso iniziatico affinchè lo stesso individuo sia in grado di attingerla.


La Scuola pitagorica e la figura di Pitagora
Nel VI secolo a.C. la città di Crotone vide fiorire una scuola filosofica ospitata nella “Casa delle Muse”, una costruzione in marmo bianco circondata da giardini e portici all’interno delle mura cittadine, nella quale il Maestro parlava ai discepoli celandosi alla loro vista, occultato da una tenda. Il Maestro proveniva da Delphi, dove aveva interpellato l’oracolo apprendendo di essere stato predestinato da Apollo a trasmettere il suo sapere in terra magnogreca.
Nelle città ioniche dilagava la tirannia, ma dalla Casa delle Muse i cittadini crotonesi ricevettero l’irradiazione di una sapienza tale da portarli a scegliere una forma di governo aristocratico espressa da quella stessa sapienza. Pare che sulla porta della Scuola vi fosse una lapide che recitava: “colui che non sa ciò che è necessario che egli sappia, è bruto tra cose brute; colui che non sa più di quanto gli è necessario, è uomo tra cose brute; colui che sa tutto ciò che può essere saputo, è dio tra gli uomini”.
Del Maestro poco sappiamo; alcuni storici ne hanno persino messo in dubbio l’esistenza, mentre biografi antichi gli attribuiscono natura semidivina e la capacità di compiere prodigi, tra cui guarire dalle malattie. Abbiamo un nome: Pitagora, che giunge fino a noi come quello di uno dei sapienti greci che animarono la filosofia presocratica, con lo specifico merito di avere fatto assurgere la matematica a scienza, chiave per la comprensione dell’esistente. Di Pitagora parla Eraclito, che polemicamente lo definisce “erudito”, così come non ne ignora l’esistenza Aristotele, il quale dà conto di alcune leggende divenute note dopo la sua morte che, accentuando il carattere religioso della sua figura, alimenteranno quel movimento neopitagorico misticheggiante che si esprimerà nelle opere di Numenio e Giamblico per confluire, poi, nel neoplatonismo.
Nessuno scritto, nessun frammento attribuibile a Pitagora è conosciuto, ma ciò viene spiegato col fatto che egli non scrisse mai nulla, affidando il suo insegnamento alla sola espressione orale e vietando ai suoi seguaci di scrivere, o anche soltanto di parlare con estranei, delle sue teorie.
Della sua biografia non si hanno certezze, possiamo solo riferirci a dati probabili che lo indicano nato a Samo intorno al 575 a.C., frequentatore degli insegnamenti di Talete e Anassimandro, allievo di Ferecìde di Siro detto il Saggio, con il quale avrebbe viaggiato nelle isole del mar Egeo e in Asia minore venendo iniziato ai sacri misteri dei templi greci. Nel 548 a.C., morto il maestro, avrebbe frequentato circoli sacerdotali e magici in Egitto e in Babilonia, prima di stabilirsi a Crotone. Anche sulla sua morte si hanno versioni discordanti: secondo alcuni sarebbe morto nel 490 a.C. a Metaponto, dopo esservi riparato a seguito di rivolgimenti politici nel governo crotonese, mentre secondo altri da Metaponto, dove si sarebbe rifugiato per sfuggire alla vendetta del nobile crotonese Cilone (al quale sarebbe stata rifiutata l’ammissione alla Scuola), fece poi ritorno a Crotone e vi sarebbe vissuto fino all’età di cento anni.
Il mito narra che Pitagora, facendo un viaggio nell’Inferno, aveva veduto l’anima di Esiodo attaccata con catene ad una colonna di bronzo e quella di Omero appesa ad un albero circondato di serpenti, in castigo di tutte le invenzioni ingiuriose alla divinità di cui sono pieni i suoi poemi. All’istante del suo ritorno dall’Inferno, egli sapeva perfettamente tutto ciò che era avvenuto sulla terra durante la sua assenza e ne fece esatto e dettagliato racconto alla meravigliata moltitudine. Leggendario l’episodio che lo vide, alla domanda del tiranno di Fliunte, Leonte, che gli chiedeva “chi sei?”, rispondere “sono un filosofo” pronunziando per la prima volta nella storia questo termine. Significativo anche l’episodio in cui gli fu richiesto cosa gli uomini facessero di simile a Dio: egli rispose “quando esercitano la verità”.
La Scuola pitagorica sarebbe stata da lui fondata nel 520 a.C. sull’esempio delle comunità orfiche e delle sette religiose d’Egitto e di Babilonia, per impartire insegnamenti che esigevano un lungo periodo di tirocinio molto rigoroso da ascoltare in silenzio, quali “acusmatici”, prima di essere ammessi ai segreti più profondi come “matematici”. Particolare interessante, e notevole per il contesto sociale dell’epoca, è che nella Scuola fossero ammesse anche le donne.
Una sommossa popolare provocata dal partito democratico determinò la cacciata da Crotone dei Pitagorici e l’instaurarsi di varie comunità pitagoriche nel mondo ellenico e nella Magna Grecia. Fra le più celebri quella di Archita di Taranto, vissuto nel IV secolo, uomo di straordinaria vastità e modernità di interessi, ricordato come tale da Platone nella VII Epistola. Ma ancora più importante quella che Filolao di Crotone fondò a Tebe nella seconda metà del V secolo, cui si deve la conoscenza dei contenuti della filosofia pitagorica, avendo egli contravvenuto al divieto di scrivere, sicché ci sono pervenuti vari frammenti che, potendoli raffrontare con quanto riferisce Aristotele sui principi pitagorici (oltre che con svariati riferimenti che si ritrovano in vari autori dell’antichità greca e latina), costituiscono la base principale per ricostruire la dottrina di Pitagora.


La dottrina pitagorica
Secondo questa dottrina i numeri sono il principio di tutte le cose. Essi esprimono la chiave senza la quale nulla sarebbe possibile pensare né conoscere.
Ogni numero, quale insieme finito di più unità, è un costituente fisico elementare delle cose ed obbedisce ad una legge, che potremmo definire dualistico-oppositiva, allo stesso tempo legge di formazione dei numeri e legge di formazione delle cose. L’opposta struttura dei numeri dispari e di quelli pari, infatti, rivela un’antitesi che può assumersi a principio di una serie di altre nove opposizioni che spezzano il mondo in due: limitato-illimitato; uno-molti; destra-sinistra; maschio-femmina; luce-tenebre; buono-cattivo; immobile-mobile; retto-curvo; quadrato-rettangolo. In tali opposizioni coesistono carattere fisico e carattere morale, in una molteplicità di significati che conferiscono ad alcuni numeri valore magico-simbolico. La contemplazione dei numeri costituisce un passaggio essenziale della purificazione che, per quanto si dirà più avanti, formava il fine principale dell’insegnamento pitagorico.
Aristotele indica alcuni ambiti nei quali, secondo questo insegnamento, il numero esprime la regola della realtà. Ad esempio, la “giustizia” è data dal 4 e dal 9, ossia da numeri che, in quanto quadrati del primo numero pari o del primo numero dispari, ripropongono quella reciprocità nello scambio in cui essa consiste. Le “nozze” corrispondono al numero 5, essendo la somma del primo numero dispari (il 3) con il primo numero pari (il 2), dal momento che l’uno, servendo a generare sia i numeri pari che i dispari va considerato come “parimpari”. Nello stesso tempo il 5 rappresenta vita e potere nella raffigurazione della stella a cinque punte iscritta nel pentagono, assunta a simbolo della stessa Scuola pitagorica.
In alcuni casi i Pitagorici perseguivano il loro intento di connettere tutto a un numero o alla proprietà di un numero, come osserva maliziosamente Aristotele, al punto che se qualche cosa mancava, si sforzavano d’introdurla perché la loro trattazione fosse completa. Ne sarebbe esempio l’invenzione dell’Antiterra, il pianeta invisibile, per portare a dieci il numero degli astri allora conosciuti e comporre così la perfezione del cosmo. Al riguardo la concezione pitagorica si presenta estremamente interessante, fino a precorrere di oltre duemila anni la rivoluzione copernicana, rappresentando una concezione del cosmo non geocentrica bensì costituita da un universo al cui centro è situato un immenso fuoco, intorno al quale ruotano dieci astri con velocità e distanze i cui rapporti sono i medesimi che regolano gli accordi musicali, anch’essi espressi da numeri.

La tetraktis e l’iniziazione
Il numero 10 rappresenta la perfezione. Esso è formato dalla somma dei primi quattro numeri (1+2+3+4), contenente in eguale quantità il dispari (3,5,7,9) e il pari (2,4,6,8), numeri primi (2,3,5,7) e numeri composti (4,6,8,9), sottomultipli (2,3,5) e multipli (6,8,9). La perfezione del 10, giustificata da ragioni strettamente matematiche che lo pongono a fondamento del sistema decimale, ne esprime la sacralità, rappresentata dalla tetraktis, triangolo equilatero il cui lato è costituito da 4 punti e la cui composizione complessiva è data da 10 punti.
E’ noto l’influsso che lo stesso triangolo ha avuto nell’iconografia paleocristiana, che lo ha rappresentato con un occhio al centro. La tetraktis contiene l’intero universo, del quale è rappresentazione geometrica: l’1 è il punto geometrico, 2 sono i punti necessari per individuare una linea, 3 i punti necessari per individuare un piano e 4 per individuare un solido. Partecipa della stessa natura degli altri numeri, essendo un insieme di unità, la cui proprietà elementare è quella di consistere in quantità reali, in cose e non pure astrazioni, sicché come di ogni numero si può ricavarne la rappresentazione geometrica, ma nel contempo la tetraktis è l’unico numero-figura geometrica che, in quanto perfetto, rappresenta il sacro.
Pare che su di essa venisse prestato il giuramento di adesione alla Scuola pitagorica. Questo giuramento, che presuppone un segreto e l’impegno vincolante a preservarlo, nel momento in cui è prestato su un simbolo sacro assume esso stesso significato sacrale. Se per essere iniziati è richiesto un giuramento siffatto, l’iniziazione stessa assume valore sacrale essendo legata ad un simbolo che, nella sua sacralità, contiene l’intero universo conoscibile.
Ne possiamo ricavare che conoscenza e iniziazione, nella tradizione pitagorica, assumono il significato di un binomio inscindibile, non potendosi concepire un accesso al sapere che non sia iniziatico né, viceversa, una forma di iniziazione che prescinda dal sapere e dalla scienza. E’ meno chiara la differenziazione che sul piano iniziatico riguardava la distinzione fra acusmatici e matematici, posto che se ai secondi erano riservati i più profondi segreti, ai primi era comunque consentito l’ascolto in silenzio e non di tutto ciò che il Maestro diceva. Tuttavia pare che la differenziazione fosse netta sul piano dei comportamenti, potendo solo i matematici vivere all’interno della Scuola spogliandosi di ogni bene materiale, laddove gli acusmatici non erano invece tenuti a privarsi delle proprietà e a vivere in comune. Una sorta di distinzione tra religiosi e laici, con diverse modalità di accesso alla conoscenza, ma con la condivisione degli stessi principi iniziatici, se è vero che col passare del tempo si accusarono vicendevolmente di non essere i più autentici interpreti della parola del Maestro, al quale per la prima volta venne riferita l’espressione ipse dixit (che, ancora oggi, sta a significare l’indiscutibilità di un pronunciamento autorevole).

La conoscenza e il dogma
Sembra quindi potersi ritenere che a fronte della necessaria iniziazione per aspirare alla conoscenza, il binomio inscindibile abbia a modularsi su diversi livelli conoscitivi e che questa modulazione debba essere rappresentata da un sapere, che procede per gradi di approfondimento, di una verità assoluta ed indiscutibile.
Che si tratti di un sapere iniziatico non può dubitarsi già per il solo fatto che esso è trasmesso oralmente, abiurando lo scritto, ma il senso dell’affermazione non può rimanere solo nel suo valore acroamatico. La dimostrazione che potremmo definire storica (non in senso storiografico, ma di accadimento narrato anche se non comprovato) del valore iniziatico degli insegnamenti pitagorici è data dalla vicenda che colpì Ippaso di Metaponto allorché, cacciato ignominiosamente dalla Scuola per avere rivelato la natura delle grandezze incommensurabili, gli venne eretta una tomba come ad un morto. La vicenda di Ippaso è emblematica del significato e del valore della conoscenza propugnata dalla Scuola pitagorica.
Come si è visto la realtà dei numeri è fatta di entità composte da un insieme finito di unità e quindi la conoscenza può essere espressa solo con i numeri interi, non anche con i numeri irrazionali. Ciò comporta che, non potendosi aggiungere ad un numero nulla che sia minore dell’unità, l’accrescimento di una grandezza debba procedere per “salti discontinui”. Non a caso la scienza pitagorica, identificata come una matematica del discontinuo, viene considerata l’anticipazione della moderna teoria quantistica.
E’ noto che in base al Teorema di Pitagora la somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa. Applicando il Teorema ad uno dei due triangoli isosceli in cui è diviso un quadrato, si dimostra che il lato e la diagonale di tale quadrato non possono avere alcun sottomultiplo comune e pertanto sono incommensurabili. Sennonché, supponendo che un segmento sia generato dall’accostamento di una serie finita di piccoli punti, ne risulterebbe che uno di questi punti verrebbe contenuto un numero finito di volte sia nel lato, sia nella diagonale, che conseguentemente avrebbero un sottomultiplo comune contraddicendo la dimostrazione derivante dal Teorema. La incommensurabilità delle grandezze esige quindi che esse siano costituite da una infinità (e non da un insieme finito) di punti. Dal che si ricava che la discontinuità, se è connaturale alla aritmetica, non può estendersi alla geometria e quindi non può dirsi proprietà comune di tutta la matematica.
Questo segreto fu custodito gelosamente dalla Scuola per diverso tempo, finché Ippaso di Metaponto lo divulgò ponendosi a capo degli acusmatici in una sorta di rivolta contro il dogmatismo che gli valse l’espulsione e la morte simbolica.

L’anima e il corpo
Ma la conoscenza perseguita dai Pitagorici attraverso l’iniziazione può realmente definirsi dogmatica?
Per rispondere al quesito dobbiamo porre attenzione ad un altro aspetto essenziale del pitagorismo, fin qui volutamente trascurato, ma necessario per comprendere meglio quanto si è già detto, in merito al rapporto anima-corpo.
Se da un lato l’anima veniva concepita come “armonia” del corpo, nello stesso senso in cui si può parlare di armonia dei suoni emessi da uno strumento musicale o di armonia data dalle proporzioni di una scultura (e cioè con modalità misurabili attraverso l’aritmetica), dall’altro se ne propugnava la natura immortale contraddicendo il carattere finito dei numeri e la natura mortale del corpo. Un frammento di Alcmeone, esponente di una importante scuola di medicina fiorita a Crotone nello stesso periodo della Scuola pitagorica, afferma che “l’anima è immortale per la sua somiglianza con le cose immortali… la luna, il sole, gli astri”. Il rapporto anima-corpo va inteso, dunque, come una delle opposizioni dualistiche in cui l’esistenza si spezza e la cui armonia è data dalla proporzionale coesistenza degli opposti.
Si è anche ipotizzato che i Pitagorici ammettessero due anime: una costituita dal temperamento psichico, legato indissolubilmente al corpo e destinato a morire con esso, l’altra da un principio immortale. La concezione dell’anima immortale deriva da credenze religiose orfiche, secondo le quali l’anima è un demone che, per una colpa originaria, è stato condannato a incarcerarsi in un corpo al quale sopravvive per incarcerarsi ulteriormente, in un ciclo di reincarnazioni che ne garantiscono la purificazione e l’espiazione della colpa, al fine di potersi ricongiungere con l’elemento divino dal quale proviene. Se per gli orfici le purificazioni corrispondevano a pratiche ascetiche e rituali, per i Pitagorici coincidevano con l’esercizio della scienza attraverso il viaggio iniziatico della conoscenza.
L’ipotesi dell’esistenza di due anime, delle quali una mortale, pone il problema della relazione fra esse, visto che la colpa di cui è caricata l’anima immortale può essere riscattata solo attraverso la purificazione di quella mortale. Il demone che si incarna entra necessariamente in contatto con l’anima che appartiene al corpo, riuscendo a progredire nel processo di riscatto dalla colpa solo se l’anima mortale intenderà perseguire la purificazione, con l’esercizio della scienza e la vita iniziatica, nel rispetto di regole e pratiche nella vita quotidiana.
Il “modo di vita pitagorico” fu altamente lodato da Platone per la sua unione di teoresi e ascesi. Ad esempio la considerazione che la trasmigrazione da un corpo ad un altro (la metempsicosi) esponesse al rischio di mangiare la carne di un animale nel quale si fosse incarnata un’anima, imponeva il divieto di consumare carne e la regola vegetariana; tuttavia questa regola era obbligatoria solo per i matematici e non per gli acusmatici, riflettendo la modulazione in diversi livelli della conoscenza, della quale si è detto.
Proprio questa modulazione, a ben vedere, fonda la delegittimazione della tesi secondo cui quello pitagorico era un sapere dogmatico basato sull'ipse dixit magistrale. Il dogma è affermazione di verità assoluta che si impone a tutti nella pretesa che debba essere recepita acriticamente. La conoscenza pitagorica, invece, è conoscenza iniziatica rispetto alla quale la ricerca individuale costituisce l'espressione della massima libertà animata dal desiderio di sapere. L'ipse dixit magistrale non è altro che una guida nel viaggio iniziatico della conoscenza.


Conclusioni
La grandezza della Scuola pitagorica, più che nell’analisi scientifica che essa ha condotto ben collocata nel contesto culturale del suo tempo, acquisendo uno spazio significativo nella filosofia presocratica, risiede nelle intuizioni che fanno del pensiero pitagorico un precursore della modernità. Il rapporto tra continuo e discontinuo, considerato uno dei più astrusi labirinti della ragione, continua ad essere ancora oggi un problema molto difficile e dibattuto. La concezione sferica del cosmo, antesignana della scoperta dello spazio curvo, precorre l’attuale concezione dell’universo pulsante con la previsione di un fuoco centrale dal quale il cosmo stesso è nato ed al quale deve fare ritorno per nascere un’altra volta. Non ultima la teoria del rapporto tra corpo e anima, che racchiude in embrione prospettive rivelatesi solo dopo la scoperta dell’inconscio e degli sviluppi della psicanalisi. Non sappiamo quante e quali ulteriori scoperte, anche in futuro, consentiranno una retrospettiva sulle intuizioni pitagoriche.
Il Pitagora ieratico, che la leggenda vuole parlasse nascosto da una tenda, più che la fonte di un dogma intangibile, alla luce delle considerazioni svolte, appare l’incarnazione di un demone che, nascondendo il corpo in cui è imprigionato, compie un gesto simbolico al quale gli astanti possono ispirarsi per compiere quella purificazione che solo attraverso l’iniziazione individuale potrà portarli a scoprire l’anima imprigionata nel proprio corpo.
A distanza di 2500 anni il Maestro ancora ci parla. Non lo vediamo, è dietro la tenda. Possiamo sentirlo, non perché ci venga dogmaticamente imposto, ma solo se lo vogliamo, con libera scelta. Ascoltiamolo: Egli ci dice che conoscenza ed iniziazione sono la stessa cosa e che non vi sono verità da svelare dietro la tenda, ma in ognuno di noi è racchiuso un segreto per il quale vale la pena di vivere e di cercarlo.

2 commenti:

  1. Il "segreto" iniziatico non è in relazione con la trasmissione, orale o scritta, di alcunché. È segreto per il fatto di non essere comunicabile. Ciò che non è diviso e, quindi, non è relativo, non può essere comunicato. Non è la tipologia della comunicazione che è esoterica. La funzione del Guru è essenzialmente quella di accompagnare l'iniziato durante i primi passi sconcertanti nella conoscenza non mediata dalla mente, al fine di facilitargli l'instaurazione della capacità di comunicare con il Guru interiore, l'unico sufficiente a se stesso. Dalla lettura degli scritti di questo blog traspare una conoscenza superficiale e culturale che, pur rappresentando una necessaria propedeutica, niente ha in comune con l'esperienza diretta dell'iniziazione. Vedete... la conoscenza iniziatica procede da principi universali che non ammettono contraddizioni di sorta, e benché i gradi che si attraversano su questo cammino siano molti, chi vede i principi non può commettere errori dati dal contrasto con la dottrina unica. L'affermazione che ho fatto nel commento che è stato cancellato, nel quale affermavo Agostino non essere un iniziato è motivo sufficiente per dubitare della profondità del conoscere esposto in quello scritto. La cancellazione senza risposta del mio commento suggella quel sospetto, solidificandone le ragioni.
    La stessa necessità di indagare le radici storiche di una conoscenza, quella iniziatica, che è al di sopra della durata temporale, indica la lontananza da quella consapevolezza.

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  2. Gent.mo Max, in genere, non mi lancio mai in giudizi, soprattutto se affrettati. In genere non ho fretta. E' nella natura della mente meditativa, non avere fretta, ma essere paziente. E credo che sia l'atteggiamento giusto per intraprendere un persorso realizzativo. Tutto il percoso iniziatico, a mio parere, è fatto di "ascolto" e "attesa", senza togliere alla nostra mente i suoi spazi, e portandola pian piano alla purificazione o se meglio credi alla integrazione nel Sé.
    Non tutti gli esserei sono pronti al salto nel vuoto. I più hanno necessità di punti di appoggio e di partire, spesso da elementi ben solidi.
    Certo la mente eruditiva è ancora ben lontana dalla "conosenza".
    Riguardo alle modalità della trasmissione... beh, penso che anche per "riunire ciò che è sparso", a volte, sia necessaria una modalità, e quella da bocca a orecchio, o guruparamparam, sia appropriata.
    I commenti a questo blog li ho solo notati quest'oggi.

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