lunedì 27 dicembre 2010

Il Banchetto di Diotima


Cercherò, invece, di esporre a voi il discorso su Eros, che un giorno udii da una donna di Mantinea, Diotima, che in queste cose era sapiente” (201d). Platone, Simposio


Tradizione e trasmissione della "conoscenza" nella Grecia Classica. Una riflessione, quanto mai, attuale

Il Banchetto di Diotima, oltre ad essere l'occasione in cui Socrate viene istruito sull'Amore dalla veggente di Mantinea, è il simbolo per eccellenza, il più eloquente, della trasmissione dell'insegnamento iniziatico tradizionale. Un insegnamento, sacro, (come del resto è quello sull'Eros/Amore a cui è stato istruito Socrate) che si trasmette tra iniziati e nella modalità da bocca a orecchio, da maestro ad allievo, tanto da fondare nei millenni, il lignaggio dei maestri che nella ininterrotta trasmissione della conoscenza sapienziale, sin dal medioevo, raggiunge, attraverso Sufi, Rosa Croce, Templari, Alchimisti, Cabalisti, Ermetisti, la fratellanza dei liberi muratori ed arriva fino a noi.

L'insegnamento tradizionale e iniziatico, come mette in rilievo lo stesso Platone, e come è simboleggiato in tutta la tradizione muratoria, arriva da lontano, si perde nella notte dei tempi, ha natura sovrumana ed è trasmesso attraverso simboli, riti e miti.
Lo stesso Platone attraverso la forma del dialogo maieutico, e giammai stabilendo una dottrina sistematica, preconfezionata, nel trasmettere l'insegnamento a cui è stato istruito Socrate, usa il sistema dei rimandi. E' infatti il modo migliore, propriamente iniziatico, per partecipare e condividere la conoscenza, guadagnando da sé le risposte ai misteri dell'essere.

Catacombe di San Callisto - Roma

L'insegnamento tradizionale, dunque, passa da persona a persona, le quali figurano come testimoni dell'insegnamento stesso, anche nel caso si tratti di testimoni inconsapevoli della sua portata. Tutti i testimoni, nella tradizione, ricevono e trasmettono il portato sapienziale così come lo hanno ricevuto, inalterato e integro. Mai si sognerebbero di tradirlo e assoggettarlo alle brame dell'ego, per fini individuali, tanto da svilirlo nella vanità dell'io, che per sua natura è provvisorio e contingente. La tradizione al contrario, come si evince dall'insegnamento di Diotima, è eterna, assoluta, metafisica e universale, porta alla catarsi e alla conoscenza dell'essere, che è il Bello in sé: quando che questo resti puro (sic)!

L'insegnamento sull'Amore e sul Bello, arriva ad Apollodoro, che lo comunica ad un suo amico, attraverso Aristodemo che a sua volta lo aveva ricevuto da Socrate dopo essere stato al Banchetto di Diotima, la veggente di Mantinea, che a sua volta l'ha ricevuto dal mito. E' chiaro che, in tempi e culture che si fondavano sulla trasmissione orale della conoscenza del sacro attraverso la modalità “da bocca a orecchio”, e quindi, a soggetti qualificati a riceverla, questo sistema non poteva che fondarsi, tra l'altro, anche e soprattutto, sull'arte mnemonica, sacra anch'essa, oggi ormai andata pressoché persa nelle acque dell'oblio egoico indotto anche dalle infinite protesi tecnologiche.

Convivio - Museo di Napoli

Il Banchetto di Diotima è dunque il simbolo per eccellenza della tradizione che accoglie, riceve e trasmette la conoscenza nella sua interezza. Il simposio, infatti, nella tradizione della Grecia Classica, come del resto è il cenacolo per la tradizione cristiana delle origini, ha valore sacro e rituale in cui la coppa delle libagioni veniva fatta girare tra i convenuti secondo un ordine preciso e per uno scopo preciso: la realizzazione dell'essere.

Appare evidente come il "banchetto", e quindi il simposio, il cenacolo, l'officina, sono elementi funzionali, fondamentali e necessari alla "realizzazione", e senza dei quali non vi è realizzazione. 
Come non considerare, dunque, il "banchetto" quale unico e insostituibile consesso in cui, come in un "calice" si accoglie, si conserva e si trasmette la conoscenza? E, come proteggere e conservare lo stesso "banchetto" dall'oblio in cui è incorso a causa della presunzione, della vanità, dell'ignoranza e dell'ambizione, se non restituendo al "convivio"  la sua essenziale e vitale funzione?

Lì vivono gli dei... Intelligenti pauca.

giuseppe vinci

Andrea Boscoli - Convivio degli dei - 1592 Corliano (Pisa)


Link a: 
Il banchetto di Platone (Francia, 1988). Regia: Marco Ferreri; Interpreti: Philippe Léotard (Socrate), Irene Papas (Diotima). Adattamento de Il simposio di Platone




Seconda parte:

mercoledì 3 marzo 2010

IL TESTIMONE PERENNE


IL TESTIMONE PERENNE

“Non rimandare mai l’osservazione su te stesso a più tardi!” 

Quello che ci accade o che facciamo accadere, a seconda della eccezionalità dell’evento, diventa per l’uomo occasione di osservazione. Accadimenti particolarmente spiacevoli o particolarmente felici, in genere, sono i soli eventi che ci inducono a riflettere su quanto accade. A causa della natura particolare dell’evento ci chiediamo il “perché”, a volte cercando risposte in cause sovrannaturali, o a noi esterne essendo queste le giustificazioni più facili da addurre. 


Raramente l’uomo cerca la verità nella legge di causa ed effetto di cui è l’artefice, spesso inconsapevole. Come venirne a capo? Dietro ogni fenomeno vi è la cosa in sé, al di la delle apparenze, il puro oggetto della conoscenza. Come approdare a questa conoscenza? Quando parliamo di accadimenti non dobbiamo soffermarci alle sole manifestazioni esteriori, visibili a chiunque. 
Varrebbe la pena indagare soprattutto quegli eventi intimi che accadono e si sviluppano nella mente come nella coscienza: desideri, passioni, paure, eccitazioni, la felicità, la depressione e l’euforia. 


Questo lavoro comincia con l’osservazione, con la coscienza autoriflessiva che si posa, ad ogni istante, sulle continue scene che si stagliano sullo schermo della mente umana, condizionando eventi futuri, scelte autonome e coscienti ma anche e soprattutto azioni spontanee, istintive e abitudinarie, meccanismi di autodifesa tendenti a conservare lo status quo a cui siamo morbosamente e inconsciamente affezionati, meglio attaccati. 
Questo lavoro non può essere rimandato a dopo, anche se si tratta di un lavoro pesante e impegnativo, che potrebbe sconvolgere le nostre abitudini, convinzioni e convenzioni, costringendoci a ripensare radicalmente il senso della nostra esistenza. Rimandare aumenta il peso futuro e da vita a quello che la tradizione indù chiama debito karmico, innescando quel meccanismo di causa ed effetto che conduce alla sofferenza. 


L’osservazione va compiuta qui e ora, ad ogni istante, qualsiasi cosa si sta facendo, portando la coscienza ad essere pienamente consapevole, divenendo il “Testimone Perenne” dell’esistenza. 
A volte diciamo: “questa situazione la conosco già, questa condizione l’ho già vissuta, prima o poi passerà” e così evitiamo di affrontare il problema, di cercarne la soluzione, perdendo una preziosa occasione e aumentando il fardello dei nodi della coscienza, fino a perdere dallo schermo della mente il fenomeno da osservare, per conoscere e purificare sé stessi. “Non rimandare mai l’osservazione su te stesso a più tardi!” 
La Tradizione Perenne ammonisce di essere “vigilanti e perseveranti”, ovvero osservare costantemente se stessi e perseverare nel lavoro di rettifica, esortazione ribadita dal motto alchemico VITRIOL. 
Per il discepolo, che intende realizzare sé stesso, questo è un imperativo, un dovere fondamentale, imprescindibile, possiamo dire il primo, corrispondente al perenne lavoro di svelamento della coscienza dalla coltre dell’ignoranza che la ricopre. Osserveremo quindi l’ira, la rabbia, l’avidità, la sensualità, la gelosia, l’invidia, l’ambizione, al loro insorgere, senza identificarci con questi fenomeni. Questo, oltre ad essere un esercizio formativo, è il primo passo che conduce alla risoluzione dei nodi, e porta la coscienza ad essere consapevole. 


Da dove nasce questa rabbia, perché quest’ansia che ci tormenta, che ci fa perdere il sonno e assedia la mente. La stessa indagine va fatta anche intorno ai successi della vita poiché anche questi possono rappresentare una forma di attaccamento. Come influiscono queste modificazioni della mente sulla coscienza, sui comportamenti quotidiani, nei rapporti con il mondo, e quali altri semi causali nasceranno dalle nostre azioni condizionate, quali saranno i suoi effetti, e quando si manifesteranno? 
Più osserveremo e più gli occhi della coscienza impareranno a distinguere elementi sempre più rarefatti, nascosti nei più oscuri meandri della coscienza, che abitualmente chiamiamo inconscio. 


Conoscere i nodi della propria coscienza significa anche poterli rimuovere, sgrossarli così come il muratore e lo scalpellino sgrossano la pietra fino a renderla perfetta e adatta alla costruzione o all’opera che vanno compiendo. 
Così l’osservazione, o meglio la coscienza osservante è un potente strumento di lavoro, un mezzo operativo di purificazione e liberazione della nostra coscienza individuata, imprigionata nel limite della materia dal potere proiettivo della māyā, l’ignoranza metafisica in cui l’uomo si è proiettato dimenticando la sua reale e profonda natura di essere di luce, realtà fatta di coscienza e beatitudine. Sottrarsi a questo lavoro significa negare il percorso iniziatico che si è intrapreso. Compierlo al contrario, significa conformarsi alla “legge naturale, universale ed eterna che guida ogni uomo intelligente e libero”, significa conformarsi a quella legge suprema, (Lex Perennis, Sanatan Dharma) che la stessa divinità ha creato e ha stabilito essere superiore a se stessa, vale quindi realizzare sé stessi. 


Il Testimone Perenne è la luce perenne della Pura Coscienza quale raggio polarizzato della Coscienza Universale, è pura consapevolezza, e si concretizza nella Conoscenza Tradizionale che si trasmette nei secoli, è il fuoco dei filosofi che arde perennemente, è il lavoro iniziatico che si protrae incessantemente e senza soluzione di continuità lungo i millenni, è l’attenzione, l’osservazione continua, l’eggregoro in continua evoluzione.


"Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventar bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non smettere di scolpire la tua propria statua interiore, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e non veda la temperanza sedere su un trono sacro. ... Se tu sei diventato completamente una luce vera, non una luce di grandezza o di forma misurabile che può diminuire o aumentare indefinitamente, ma una luce del tutto senza misura, perché superiore a ogni misura e a ogni qualità; se ti vedi in questo modo, tu sei diventato ormai una potenza veggente e puoi confidare in te stesso. Anche rimanendo quaggiù tu sei salito né più hai bisogno di chi ti guidi; fissa lo sguardo e guarda: questo soltanto è l'occhio che vede la grande bellezza. Ma se tu vieni a contemplare lordo di cattiveria e non ancora purificato oppure debole, per la tua poca forza non puoi guardare gli oggetti assai brillanti e non vedi nulla, anche se ti sia posto innanzi un oggetto che può essere veduto. È necessario, infatti, che l'occhio si faccia uguale e simile all'oggetto per accostarsi a contemplarlo. L'occhio non vedrebbe mai il sole se non fosse già simile al sole, né un'anima vedrebbe il bello se non fosse bella. Ognuno diventi dunque anzitutto deiforme e bello, se vuole contemplare Dio e la Bellezza" 
(Plotino - Enneadi I, 6, 9). 


Giuseppe Vinci

lunedì 22 febbraio 2010

Il non attaccamento

Le qualificazioni dell’aspirante.
Il non attaccamento


Colui che è attaccato, accompagnato dal suo karman, va laddove la mente desiosa lo sospinge; una volta esaurito il karman, qualunque cosa abbia potuto compiere, da quel mondo, di nuovo, ritorna a questo mondo, all’azione. 

  Bŗhad-āraņyaka-upanişad


L’aspirante che s’addentra nei meandri della conoscenza del Sé, con l’iniziazione, alle dottrine orientali o occidentali che siano, intraprende un lungo, faticoso ed infinito viaggio. La letteratura iniziatica d’oriente e d’occidente, a cui facciamo riferimento, ci ammonisce come, tale viaggio, un percorso di vere e proprie prove iniziatiche, ben più che fisiche, simboliche e allegoriche, nell’essenza, cela l’arcano processo, fatto di ricerca, verifica e rettifica, atto ad individuare e rimuovere gli ostacoli che ostruiscono e rallentano il percorso di perfezionamento interiore. Un perfezionamento che è preparatorio e imprescindibile per giungere alla conquista, all’assimilazione coscienziale e all’identità con la Verità stessa. 


Il viaggio, dunque, è per la tradizione, un’azione rituale purificatoria che mira a liberare l’essere dal fardello della profanità. Per questo, ancora oggi, in molte società tradizionali, il pellegrinaggio ricopre un momento fondamentale e imprescindibile del percorso spirituale.
Sono indispensabili, per intraprendere il viaggio, particolari qualificazioni iniziatiche che solo il Maestro (Guru) è in grado di ri-conoscere nell’aspirante. Sono necessarie quelle qualità che permettano all’aspirante di superare gli ostacoli che inevitabilmente incontrerà lungo il sentiero: il coraggio affinché l’aspirante non abbia timore, non provi spavento, non tema d’essere scoperto nei propri difetti, rischiando così, prigioniero delle proprie illusioni, di non andare oltre, lungo il sentiero; la convinzione interiore e la forza d’animo affinché emergano le capacità intelligibili dell’aspirante; occorre vigilare e perseverare per essere purificati e uscire dall’abisso delle tenebre e giungere a vedere la Luce; è richiesta ancora la predisposizione ad intraprendere l’esperienza con libertà e purezza d’animo, liberi dalle distinzioni umane, dalle curiosità profane, senza dissimulare. Prima di ogni cosa, è necessario che l’aspirante ponga in se stesso un punto fermo e indissolubile, per tutto il percorso, un punto di partenza che è allo stesso tempo la meta del viaggio: la fede nell’Essere Supremo.


Queste sono le condizioni senza delle quali è impensabile procedere, le condizioni di cui deve essere provvisto il buon neofita che non persegue altro fine se non quello di “Emanciparsi dall’incubo delle passioni, cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male, essere un’immagine divina di questa realtà”, come recita Franco Battiato in “E ti vengo a Cercare”.
La qualificazione dell’aspirante culmina con un atto che all’apparenza sembra avere un significato morale ma che in realtà, nell’uomo “libero e di buoni costumi”, in possesso delle giuste qualificazioni dà vita al processo di realizzazione iniziatica che va ben oltre ogni possibile morale. Si tratta di quell’atto rituale che nella tradizione orientale è definito come non attaccamento, vairāgya o distacco che nella tradizione occiden-tale corrisponde all’abbandono dei metalli e la loro trasmutazione da piombo (materia bruta e informe), in oro, metallo sublime. Ne danno testimonianza l’alchimia, l’ermetismo e il simbolismo muratorio, ma anche il Tao, il Vedanta Advaita, il Sufismo, la Kabala. Si tratta insomma della trasformazione (abbandono) dell’ego/piombo in oro/pura coscienza. 


Tutte le Tradizioni iniziatiche raccomandano al viaggiatore, di percorrere la via della conoscenza senza pesi, senza zavorra, in piena libertà, libero da ogni condizionamento della vita profana. E’ innanzitutto con la rinuncia, che nell’aspirante s’innesca quel meccanismo che porta alla purificazione, alla liberazione dell’essere. Interessante è il suggerimento offerto dal Matto, tavola dei Tarocchi che non ha numero a voler significare l’assenza di sé in cui rantola l’illuso. Nell’icona il Matto è raffigurato con in spalla la zavorra e nell’atto di procedere lungo il viaggio, incespicando e rantolando nelle tenebre dell’ignoranza, in preda alle proiezioni illusorie della profanità, rappresentati dalla zavorra.
I metalli, gli attaccamenti, la zavorra che l’aspirante porta con sé, brillano, ammaliano e generano illusioni, sono l’effige di desideri e passioni, di pregiudizi e superstizioni, di idee preconcette e abitudini, del senso del possesso ed ogni altra forma di attaccamento, di tutto ciò che produce identificazione, con gli oggetti dei sensi e con quelli della mente proiettiva. Tutto ciò crea contrapposizione e separatività, protende l’essere nel regno della dualità, nel quale frenetica e incessante si svolge la lotta dei contrari.
Nei Versi Aurei, della scuola Pitagorica, s’individua nell’uomo la sorgente luminosa dell’Essere Puro che a causa degli attaccamenti resta latente sotto il velo delle illusioni. 

Tu imparerai che i mali, che affliggono gli uomini, sono il frutto della loro condotta, e che questi infelici cercano, lontano da sé quei beni dei quali essi sono la sorgente. Pochi sanno essere felici; soggiogati dalle passioni, volta a volta sballottati come da onde contrastantesi sopra un mare senza alcuna terra in vista, essi brancolano ciechi: senza poter resistere, ne cedere alla tempesta. Per Zeus! Voi li salvereste togliendo l’illusione dai loro occhi... Ma no, è compito dell’uomo creatura divina discernere l’errore e contemplare la Verità. La Natura mediante i suoi veli, ti spiega. Tu che li hai sollevati, uomo savio... sei in porto! Osserva le mie istruzioni... affinché, elevandoti poi nell’Etere radioso, Tu divenga immortale, spirito eterno, non più soggetto a morte.

Le tradizioni iniziatiche insegnano che i metalli, gli attaccamenti, per natura, nell’essenza, sono legati al divenire, al mondo dell’apparenza, all’impermanente, al perituro, al regno della dualità e della contrapposizione, e fintanto che l’essere resta vincolato a tali condizioni, finché non se ne distacca, finché non si libera, non può giungere alla fine del viaggio. I metalli, gli attaccamenti sono occasione di distrazione, deconcentrano la mente, ritardano e spesso escludono ogni possibilità di portare a termine il viaggio e raggiungere la meta: essere pura coscienza. E’ bene quindi che l’iniziato a mano a mano che procede verso i gradini più sublimi dell’iniziazione si liberi sempre più dai metalli.

Solo una mente pacificata e pura può risolversi nella pura coscienza.
Il percorso iniziatico tradizionale mette a disposizione del praticante tutta una serie di strumenti necessari a trasformare la coscienza e maturare e realizzare una consapevolezza superiore rispetto alla condizione di partenza: quella del profano. Il neofita nella prima parte del viaggio “deve” - è un imperativo - lavorare al non attaccamento, anche nei confronti della vita stessa, per un Valore Supremo. Il neofita, deve, insomma, essere pronto a mettere in discussione se stesso fino in fondo, costi quel che costi. 

L’uomo che vive senza attaccamenti, vale a dire senza essere schiavo degli eventi, delle cose, degli oggetti interni ed esterni alla mente, purificato dagli elementi, libero dai metalli, padrone del proprio karma, può sublimare la propria coscienza e raggiungere uno stato di maggiore consapevolezza dell’essere. Mano a mano che il Campo dell’esistenza viene sgombrato dal velo degli attaccamenti la vista dell’intelletto si amplia, diventa più profonda, impara ad andare oltre le apparenze, l’essere ne guadagna in consapevolezza.
L’iniziato intanto, come ogni uomo, non può esimersi dal vivere la sua condizione naturale. L’esperienza terrena dell’uomo si svolge proprio nel mondo della dualità. E’ da questa condizione, attraverso il supporto della tradizione, che l’iniziato mira ad emanciparsi attraverso la pratica del distacco. 


Ripensiamo alle parole di Kiplin:

Se tu sai forzare il tuo cuore i tuoi muscoli e nervi a servire, servire, servire al di là delle forze e così tener duro per quanto in te tutto è finito eccetto il Volere che dice: Resisti; ...Se tu sai sognare ma il sogno non è tuo padrone; ...Se tu sai pensare ma non fai del pensiero il tuo scopo; ...Se sai incontrare i due Vecchi Impostori, Trionfo e Disastro con animo uguale; ... Se ancora sai fare una posta di tutto il guadagno e rischiarlo con cuore sereno su un colpo di dadi e perdendo tornare da capo e mai più accennare a ciò che hai perduto; ... Se né i nemici né gli amici che ti amano hanno il potere di ferirti; ...Se tutti gli uomini contano per te ma nessuno conta per te troppo; ... sei Uomo...
 Da questi pensieri si comprende come Kipling fa riferimento alla dottrina del non attaccamento, quale strumento necessario per liberare e realizzare l’Uomo.

 Gli attaccamenti più subdoli, più insidiosi e pericolosi per il viandante, sono certamente quelli che derivano dalla mente, e che dalla mente si estendono al corpo, condizionandolo. Questi sono i pregiudizi e le superstizioni, ma anche e soprattutto le abitudini, il senso del mio e del tuo, l’attaccamento al frutto delle azioni, i sentimenti buoni e cattivi, come il dolore e il piacere, l’odio e l’amore. Viaggiare verso la liberazione dai metalli per realizzare il Sé Supremo è un lavoro arduo che non ha mai fine, nemmeno per il Realizzato.
Gli insegnamenti dei grandi saggi, dei grandi maestri illuminati, s’intersecano all’infinito al di là dal tempo e dallo spazio, attraversano le ere e i continenti, così come le tradizioni iniziatiche da cui tali insegnamenti sono scaturiti. Così i moniti e le istruzioni date dagli insegnamenti del Geometra di Samo, riecheggiano nelle meditazioni di Kipling. Gli esempi che la letteratura iniziatica ci ha lasciato in eredità sono tanti.


Di fondamentale importanza è stato l’apporto lasciato da Platone, in modo particolare con il Fedone in cui Socrate espone la dottrina metafisica dell’anima e il metodo del non attaccamento necessario a liberarla. Platone dedica la parte iniziale del dialogo all’esposizione della pratica del non attaccamento quale fondamento imprescindibile, per giungere alla realizzazione dell’Essere

Sembra che ci sia un sentiero – dice Socrate - che ci porta, mediante il ragionamento, diretta-mente a questa considerazione: fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungiamo mai in modo adeguato quello che ardentemente desideriamo, vale a dire la Verità. Infatti il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’Essere. Inoltre, esso ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, di guisa che, come suol dirsi, veramente, per colpa sua non ci è neppure possibile pensare in modo sicuro alcuna cosa. In effetti, guerre, tumulti e battaglie non sono prodotte da null’altro se non dal corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre si originano per brama di ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa del corpo, in quanto siamo asserviti alla cura del corpo. E così noi non troviamo il tempo per occuparci della filosofia, ... E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua e riusciamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, si che, per colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. Risulta chiaro che, se vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo distaccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime. Allora soltanto ci sarà dato di raggiungere ciò che vivamente desideriamo e di cui ci diciamo amanti, vale a dire la saggezza. ... Nel tempo in cui siamo in vita noi ci avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni con il corpo, se non nella stretta misura in cui vi sia piena necessità, e non ci lasceremo contaminare dalla sua natura, ... e nel corpo ci manterremo puri, ... liberati dalla stoltezza...
Nel Bhagavad-gītā - poema sacro della tradizione hindū, risalente all’VIII secolo a.C. - Śrī Kŗşņa, istruisce Arjuna, il suo alter ego, alla scienza iniziatica dello Yoga. Lo Yoga è la via del ritorno, il percorso iniziatico che porta alla riunione col divino, che conduce l’essere dalla molteplicità della manifestazione all’Uno. Nella tradizione hindū vi sono tre vie yoga, dette anche mārga (percorso spirituale) e sono: il karma-yoga, la via del retto agire; bhakti-yoga, la via della devozione; jñāna-yoga - proprio del Vedānta - la via della conoscenza-consapevolezza.
Questa ultima, jñāna-mārga, conduce alla conoscenza della Realtà ultima consentendo all’uomo il mokşa, la liberazione in vita, la visione della Verità. I primi rudimenti impartiti all’aspirante, riguardano la pratica del non attaccamento, pratica che pur essendo necessaria agli esordi, non dovrà mai essere abbandonata, anche qualora si raggiungeranno le più alte vette della Conoscenza. Śrī Kŗşņa descrive come si esplica l’attaccamento agli oggetti esterni e passa dalla descrizione del meccanismo in funzione degli oggetti esterni e di quelli interni alla mente. 

  ...il contatto con i sensibili elementari procura le sensazioni di freddo e di caldo, di piacere e di dolore. ... accettale con pazienza: esse vanno e vengono, ma non durano. ... L’uomo saldo, che esse non turbano, o toro fra gli uomini, e che sopporta con animo uguale dolore e piacere, è un saggio pronto per l’immortalità. ... Considerando uguali piacere e dolore, profitto e perdita, vittoria e disfatta, raccogli le tue energie per il combattimento; così non patirai nessun male. ... Quella che ti ho ora esposto, è la saggezza sul piano speculativo; ascolta ora questa sag-gezza sul piano pratico; se ne farai uso, ti sbarazzerai dei legami dell’atto. ... In questa disciplina nessuno sforzo cominciato va perduto, nessun impedimento sopravviene; la pratica, di questa regola di vita ti salva da un grande pericolo. ... quaggiù l’intelligenza unificata è per sua natura propria alla decisione; in effetti coloro che mancano di decisione hanno una intelligenza dispersa e non hanno uno scopo determinato. ... Coloro che provano attaccamento per il godimento e per la potenza hanno il pensiero catturato da ciò; in loro l’intelligenza, benché per natura propria alla de-cisione, si mostra inadatta alla contemplazione equilibrata. ... Quando si rinuncia a tutti i desideri che turbano il cuore e la mente, ... quando si è appagati in se stessi e da se stessi, ecco quel che si dice “essere consolidato in saggezza”. ... La mente di un simile uomo non conosce apprensione nelle sofferenze; è libero da ogni attaccamento ai piaceri, affrancato dalla cupidigia, dal timore o dalla collera: tale è l’iniziato che si dice “saldo nell’Alto Pensiero”. ... E allorché tale uomo ritrae e raccoglie totalmente le sue facoltà sensoriali lontano dagli oggetti sensibili, come fa la tartaruga con le sue membra, è lui quegli che è consolidato in saggezza. ... Bisogna dunque padroneggiarli, raccogliendosi e mantenendosi nella disciplina ... Colui che tiene i sensi in suo potere, quegli è consolidato in saggezza. ... L’uomo accorda continuamente il suo pensiero agli oggetti dei sensi; ne consegue che s’attacca ad essi. Dall’attaccamento nasce allo stesso tempo il desiderio; al desiderio si aggiunge la collera. Dalla collera viene lo smarrimento completo. Dallo smarrimento, lo sconvolgimento della memoria; dal disordine della memoria, la rovina del giudizio e della decisione; dalla rovina del giudizio la perdita dell’uomo. Ma chi si muove fra gli oggetti sensibili, con le funzioni sensoriali sottratte all’amore come all’odio e tenute sotto il suo dominio, questi, anima disciplinata, accede alla serenità suprema. ... Perché, per la mente errante qua e là che segue la legge dei sensi, la loro foga prevale sulla saggezza, come fa il vento con una nave sulle acque. ... Ciascuno dei sensi prova un’attrazione o un’avversione immutabilmente determinata per questo o quell’oggetto sensibile; nessuno deve porsi in balia di questi due impulsi: perché essi sono le pietre d’inciampo sulla strada di tutti. ... Benché tenga in sacco le proprie facoltà d’azione colui che, restando immobile, evoca mentalmente gli oggetti sensibili, si dice a buon diritto che la sua anima si smarrisce e che la sua condotta è falsa. Ma colui che, padroneggiando i sensi mediante la mente, intraprende con distacco la disciplina dell’azione, mettendo in opera le proprie facoltà attive, quegli eccelle fra gli iniziati. ... Per lui, compiere una certa opera o aste-nersi da un’altra non ha più alcun senso né interesse personale. Fra tutti gli esseri nessuno gli serve da appoggio al suo Fine ultimo. ... E’ la cupidigia, è la collera, nate dal fattore passionale, il Grande Vorace, il Grande Malfattore. Sappi che in questo caso il nemico è lui. ... La conoscenza è velata da questo eterno nemico dell’anima conoscente, fuoco insaziabile che prende la forma del desiderio... ... Perciò in ciò che ti concerne, ... padroneggiando dapprima le tue facoltà sensibili, devi distruggere questo maligno, distruttore della scienza e della saggezza.
Il percorso iniziatico, quindi non è privo di ostacoli. Questo, infatti, si dimena lungo l’esperienza della vita quotidiana, con cui si condivide il vissuto. Quanti sono pronti a intraprendere un simile sentiero? Quanti sentono la necessità di uscire fuori dal vortice delle illusioni? Quanti lungo il sentiero sono disposti rendersi liberi da ogni identificazione, da titoli, prebende e orpelli di ogni sorta, dai riconoscimenti e dalle esclusioni? Quanti sono disposti a rinunciare a quanto già acquisito e consolidato dagli automatismi incon-sapevoli del quotidiano, demolirlo, sgombrare il Campo per costruire un nuovo essere consapevole di sé? Quanti si riconoscono aspiranti con le necessarie qualificazioni, anche tra quelli che hanno già intrapreso il cammino?
Il nostro proposito è quello di darci impegno, a iniziare e a proseguire il viaggio con devozione piena verso la ricerca della Verità, operando ad alleggerire la zavorra, individuale e collettiva, incessantemente, senza sosta, fino a divenire esseri universali, fino a realizzare il Sé Supremo, il Brahman, l’Assoluto.
 

Così recita la Kaivalya Upanişad:
Avendo realizzato <io sono Brahman >, si è liberati da ogni legame.


Giuseppe Vinci

Tratto da: Sé Metafisica Realizzativa - Risvista di Studi Tradizionali a cura del Centro Studi Tradizionali Sé - Autunno 2004

domenica 21 febbraio 2010

Intervista


Centro Studi Tradizionali “Sé”
… una realtà poco conosciuta.
“Sé”… se vuoi scoprire…
di Marianna Guarini

Il Centro Studi Tradizionali “Sé” è una comunione associativa presente nel nostro territorio da diversi anni. Nonostante i vari incontri organizzati e le iniziative portate avanti, rimane una realtà poco nota, timida. Al fine di apprezzare la natura di questa comunione ed avere una maggiore conoscenza dei suoi campi d’azione, abbiamo intervistato Giuseppe Vinci, presidente del Centro, da sempre interessato allo studio delle più diverse discipline Tradizionali.

Signor Vinci, di cosa si occupa il Centro Studi Tradizionali “Sé”? Da quanti anni è attivo e chi ne fa parte?

Intanto credo che sia necessario darsi del tu. Queste distinzioni pongono una distanza innaturale tra gli uomini legati nel vincolo dell'appartenenza allo stesso creato, una distanza che porta solo incomprensione, ignoranza e dolore.

Per comprendere appieno la natura del Centro bisogna fare riferimento al concetto/simbolo di Centro e periferia o circonferenza (ovvero ciò che inferisce intorno al centro). A partire da questa circonferenza l’uomo si sforza di Conoscere e Realizzare il Centro ineffabile dell’Essere, percorrendo la Via che li congiunge. Ecco in una rapidissima battuta di cosa si occupa il “Centro” che ho l’umile compito di rappresentare e guidare. Ed ecco che si comprende anche il senso dell’appellativo Sé, particella autoriflessiva che fa riferimento alla natura Metafisica dell’Essere. Ecco che si spiega anche il Sole raggiante come simbolo dello stesso Centro.
Il Centro è attivo dal 2004, anno della sua fondazione, ed è nato per soddisfare l’esigenza di un lavoro di ricerca e di confronto più intensi e proficui rispetto al doversi muovere individualmente, spesso come un pacco senza indirizzo senza mai giungere a nulla. L’uomo, in genere resta lungo la circonferenza fenomenica degli eventi mutevoli, cangianti, impermanenti senza Realizzare la Fonte Essenziale da cui scaturiscono le forme, appunto la meta e l’origine dell’esistenza stessa.
Allo stato attuale il Centro ha pochi soci, circa un centinaio, afferenti anche dalle province limitrofe, pur avendo il suo punto di riferimento nella nostra città ed ha rapporti con altre realtà simili alla nostra, sparse per l’Italia: Akropolis, Paideia, Philia, Vidya, Il Centro e il Cerchio, e altre ancora.

Quali sono gli obiettivi che il Centro si pone?

Si tratta insomma di studi e ricerche di natura Tradizionale, dove per Tradizione s’intende quella “Conoscenza” o meglio il metodo di Conoscenza che a partire dall’umano intende Realizzare il Sovraumano. Un metodo che consiste essenzialmente nell’uso dell’eloquenza dei Simboli universali, di miti e leggende, eloquenza ben difficile da realizzare senza un metodo. Il Metodo Tradizionale, che consiste soprattutto nella pratica delle Virtù morali e filantropiche prima, quelle eroiche poi, non ultime quelle sovrumane e divine, è quello che ci è stato trasmesso ininterrottamente lungo i millenni dai Saggi, dai Maestri Realizzati, quali Pitagora, Parmenide, Platone, Plotino, Agostino, Benedetto da Norcia, Francesco d’Assisi, Dante, Bernardo di Chiaravalle e così via, facendo riferimento, soprattutto per noi di cultura cattolica, all’insegnamento di Gesù Cristo Nostro Signore e alla Bibbia. I nostri studi però non trascurano la Tradizione Orientale e i suoi Maestri, come Shankara e Gaudapada, Lao Tsu, Gotama Siddharta, Bodhidharma, Rumi, Ermete Trismegisto, gli innumerevoli Maestri della Cabala, tutte figure che spesso sconfinano nel Mito. Ciò sta ad indicare come la Tradizione è impersonale e universale, e i Maestri a cui l’umanità fa riferimento non si sono mai eretti a detentori assoluti della Verità ma si sono rimessi alla Tradizione divenendone testimoni, ponendo quindi la Tradizione innanzi a tutto.

Il Centro ha una programmazione annuale con incontri e tematiche prefissate?

Certo, all’inizio di ogni anno sociale, in primavera per la precisione, programmiamo le nostre attività pubbliche quali convegni, tavole rotonde, presentazioni di libri sui temi a cui abbiamo già accennato.
Dal 2004 ad oggi abbiamo presentato diversi libri come quello di Carmelo Muscato, La Questione delle dottrine non scritte e l’esoterismo di Platone; La Via Iniziatica del Prof. Mariano Bizzarri (Dep.t of Experimental Medicine and Pathology Scientific Commitee of the Italian Space Agency, University La Sapienza), e con cui abbiamo tenuto nel febbraio di quest’anno una tavola rotonda su L’Ordinatore Interno nella Tradizione Iniziatica. Con Carmelo Muscato, ricercatore e docente a contratto all’Università di Messina, abbiamo tenuto due tavole rotonde nel 2006 su Platone e la Polis Interiore e nel 2007 Ascesi e Autorealizzazione in Platone. Sempre nel 2007 in autunno con Vincenzo Fiasconaro, Ingegnere Nucleare dell’Enea di Frascati, esperto in Scienze Olografiche abbiano trattato de Il Sole e la Caverna, il Mito di Platone alla luce delle scoperte del III millennio. Nel 2008 ancora è stato nostro ospite il Prof. Vincenzo Ferrari, docente universitario e cassazionista di fama internazionale, che ci ha intrattenuto su Conoscenza e Iniziazione nella Scuola Pitagorica.
Non ultima tra le nostre attività c’è stata, il 2 maggio scorso, la presentazione del romanzo epistolare Il Padrone di Casa di Alberto Samonà, di cui abbiamo apprezzato il tuo intervento su l’Eco di Fasano.
In genere le date vengono indicate per tempo in modo che gli interessati possano rendersi disponibili a partecipare. Per il prossimo futuro sono in calendario due altre Tavole Rotonde.

Periodicamente il Centro Studi si occupa della pubblicazione di una rivista. Quali sono gli argomenti che vengono affrontati al suo interno? Qual è il suo piano di diffusione?

La rivista Sé - Metafisica Realizzativa, non ha una scadenza ben definita, trattandosi di uno strumento interno al Centro che ne riassume il lavoro. Viene diffusa in diverse regioni d’Italia anche a chi ne fa espressamente richiesta e raccoglie buona parte del lavoro di ricerca condiviso dai componenti del Centro. A tutt’oggi abbiamo pubblicato otto numeri in cui abbiamo trattato degli argomenti più diversi, cercando sempre di condurre un’indagine rigorosa sulla natura dell’Essere.

Il Centro Studi Tradizionali “Sé”, è aperto qualora qualcuno volesse entrarne a far parte?

Il Centro non ha le porte serrate, basta bussare. Tutti possono farne parte a patto che si condivida con purezza di cuore lo spirito di ricerca. Le uniche porte, spesso ben serrate, che s’incontrano in casi come questo sono nella nostra stessa mente, nei nostri pregiudizi e superstizioni, nella nostra ignoranza sostenuta di frasi fatte, stereotipi, convenzioni e abitudini a cui siamo attaccati e che facciamo fatica ad integrare o rimuovere, spesso per pigrizia o per pura del diverso, nonostante molti riconoscono che la conoscenza di Sé sia necessaria alla nostra stessa crescita interiore.

Pubblicato su L'Eco di Fasano - Periodico mensile di informaznione cittadina - Giugno 2009

sabato 20 febbraio 2010

Il Lavoro Iniziatico



Ti do le chiavi per aprire le porte del Tempio; in Esso troverai il Fuoco rigeneratore che ti ingrandisce quanto il creato, la spada fiammeggiante per combattere le tenebre che ti costringono, la Verità suprema splendente e costante.
Raphael


Spesso nelle nostre riflessioni usiamo prendere in prestito il Vate, il poeta che più di ogni altro da circa un millennio rappresenta uno dei fari più luminosi lungo la Via Iniziatica. Anche in questo momento parafrasandolo e correndo il rischio di banalizzare l’intento, potremmo dire che “nel mezzo del cammin di nostra vita” l’esigenza del perfezionamento interiore ci ha condotti a bussare alle porte dell’iniziazione. E’ un po’, come dire , che riconosciamo, cioè prendiamo coscienza, ad un certo punto della nostra esperienza di vita, o almeno si presume che ciò sia avvenuto per chi s’addentra lungo la Via, di essere un’entità finita, limitata, imperfetta, soggetta a continuo mutamento. Ed è proprio questa precarietà la molla che ci spinge a questo viaggio: oggi, infatti, non siamo mai quelli di oggi stesso, ne in passato avremmo potuto vederci per quello che appariamo, ne domani riusciremo a vedere quello che siamo stati e che saremo. 

Allora noi chi siamo, cosa siamo? In un certo modo, verrebbe da dire che siamo inafferrabili e nonostante la nostra condizione di limite, nonostante il nostro essere limitati permette di “definirci”, il nostro essere è un essere fuggevole, quindi indefinito. Siamo di continuo combattuti nel regno della dualità, tra bene e male, tra bello e brutto, tra giusto e ingiusto, tra essere questo e quello e così all’infinito a seconda dell’esperienza che compiamo, a seconda del tempo e dello spazio in cui viviamo. E’ come se fossimo una molteplicità di esseri, spesso in disaccordo tra loro e non solo lungo una ben scandita linea temporale ma a volte anche contemporaneamente come uno che soffre di personalità multiple o come un dissociato mentale, uno scizofrenico. 
 
Se dovessimo descriverci altrimenti potremmo ben dire che la condizione umana è dibattuta continuamente tra finito e infinito, tra limite e illimite. Da esseri finiti quali siamo, tendiamo, per natural tenzone, perpetuamente all’infinito, all’assoluto, alla perfezione. Ma ne siamo sicuri o è solo una dolce illusione che appaga l’illuso? Pur se il cuore nutre questo desiderio la natura mutevole del nostro essere rappresenta di per se una forza contraria che ci decentra costringendoci a vivere una realtà periferica fatta di ombre, le quali a loro volta rappresentano la presunzione del loro essere a prescindere dal corpo e dalla luce che le proietta. La lotta dei contrari però non è un mero concetto filosofico. 

Questa lotta, per l’uomo che ha preso coscienza di sé, è una lotta dura che si combatte sul Campo della propria vita, intrisa di difficoltà e di successi, di sofferenza e di gloria, di errori e di felicità, di soprusi e di amore.
Lungo quest’esperienza è la conoscenza (jñāna) lo strumento principe attraverso il quale l’iniziato tende alla perfezione. Ma la conoscenza di cui si parla, quella che ci conduce alla Verità, non è la conoscenza eruditiva, la conoscenza enciclopedica, quella storica e tanto meno quella scientifica, o letteraria, cioè quella che si apprende attraverso i libri, quella che si apprende nelle scuole o nelle università. Quest’ultima può essere solo il viatico, lo strumento ausiliario ma non per questo necessario, per giungere ad una conoscenza di natura superiore (paravidyā).

La conoscenza oggetto di ricerca degli iniziati è la conoscenza del Sé (vidyā – conoscenza introspettiva), partendo da quello individuale (ātman) per giungere a quello universale (Paramātman). Nelle librerie abbiamo la possibilità di trovare un mare quasi infinito di pubblicazioni, di tutti i tempi, circa ogni ordine e grado di conoscenza. Molti sono anche i testi che si occupano di questioni iniziatiche, ma badiamo bene che si tratta di solo “cultura iniziatica” e non di iniziazione vera e propria. E’ praticamente impossibile trovare libri che ci possano far vivere direttamente l’esperienza iniziatica. La cultura intesa come generalmente lo è in occidente, potrebbe anche allontanare l’individuo dallo spirito vero dell’iniziazione.

Ricordiamo le parole di Platone tratte dall’Apologia di Socrate:
... si da il caso che, in realtà sapiente sia il dio e che il suo oracolo voglia dire appunto questo, ossia che la sapienza umana ha poco o nessun valore.
L’esperienza iniziatica vera e propria è il viatico per la conoscenza di sé, per conquistare la Verità, per incamminarsi lungo il sentiero del perfezionamento interiore e giungere alla maestria: la piena padronanza e consapevolezza di sé. L’esperienza iniziatica ci permette di sondare la Verità, l’Essenza e la conoscenza che si guadagna è soprattutto “conoscenza catartica”, che porta alla trasformazione profonda della coscienza.

Essere maestri (guru – ācārya) dunque non significa avere una cultura da saccenti e primi della classe. Essere maestri significa realizzare uno stato di coscienza, una dignità che nessuna erudizione mentale e intellettuale potrà mai dare. La conoscenza iniziatica tradizionalmente, si trasmette da bocca a orecchio, da maestro ad allievo, (guruparamparam) ininterrottamente attraverso un complesso apparato rituale e simbolico, che si tramanda da tempo immemore e che costituisce la Tradizione Iniziatica. Questa è il luogo deputato agli iniziati, in cui è possibile affinare gli strumentiindividuali necessari alla trasmutazione del proprio essere e giungere alla liberazione (mokşa).

Il lavoro primario o meglio il “dovere primario” per accedere al Tempio del Sapere, per accedere alla Verità, è innanzitutto quello di prendere coscienza e di correggere i propri difetti, sempre presenti nelle nostre oscure e tenebrose caverne interiori. Questo lavoro è come un’incessante lotta sul Campo del nostro essere, fatta di ricerca e rettifica perpetua del nostro essere. Si tratta di sgomberare il Campo dai suoi nemici storici: l’egoismo e l’ambizione, la presunzione e l’orgoglio, i desideri e la vanità, vecchi figli, sempre vivi, dell’ignoranza e tale può essere anche la cultura.
 “In noi vive un dio che può parlare solo in assenza di vanità, di orgoglio, di miseri interessi profani e solo in presenza di purezza di cuore.”  (trevab)
Dunque, il lavoro iniziatici per dare i suoi frutti necessita impegno e dedizione, meglio, necessita di spirito di partecipazione, amore e devozione (bhakti) verso il nostro Essere, il Sé interiore, quel dio che resta silente perché avvolto dalle tenebre dell’- ignoranza (avidyā), dal velo del pregiudizio e della presunzione, dal manto degli attaccamenti, dalle illusioni (māyā) che appesantiscono, rallentano e spesso impediscono il cammino verso la luce dell’Essere Autorisplendente. La realizzazione comincia a dare i sui frutti a mano a mano che si lavora alla propria trasformazione affrontando la lotta più difficile che l’uomo abbia mai combattuto, quella contro le proprie passioni, contro il proprio ego conflittuale. Si tratta di un lavoro arduo che si svolge nel silenzio e nel segreto del nostro essere più intimo.

Gli attaccamenti della vita profana, il senso del possesso verso il denaro, verso gli oggetti dei sensi, i desideri e le ambizioni, le convinzioni, vanno abbandonati e tenuti perennemente sotto controllo ad ogni passo lungo il percorso, vanno definitivamente, progressivamente e incessantemente tenuti lontani da sé ad ogni attimo di vita vissuta.
Non sono le opere pie, le beneficenze e la partecipazione al dolore altrui che permettono di trasformare se stessi. Queste azioni, a volte, servono demagogicamente al momentaneo lavaggio della coscienza e non alla sua effettiva trasformazione. Queste, al contrario, divengono il corollario naturale e spontaneo per l’uomo, realizzato, libero delle nevrosi, frutto degli attaccamenti, dalle illusioni frutto dei desideri e delle ambizioni, e al di la delle apparenze frutto dell’essere che non sa essere.

Ebbene, solo l’uomo pudico, inteso nel senso più elevato del termine, cioè l’uomo che ha coscienza e consapevolezza realizzativi di sé, l’uomo che effettivamente partecipa delle trasmutazione del suo essere, può accedere ai gradini più alti dell’iniziazione e quindi ai segreti più recessi dell’Essere, all’Essenza Pura. Il lavoro iniziatico è, così, lavoro che, se svolto nel pieno rispetto della Tradizione, conduce di la del tempo e dello spazio alla conoscenza suprema.
Conoscenza quindi è Essere.
Questo è il principio d’identità della Realizzazione Iniziatica. Questa conoscenza và dunque realizzata, sperimentata direttamente, in prima persona. Si tratta cioè di sottoporsi ad una continua e incessante autodisciplina interiore (sadhana) facendo affidamento agli strumenti che la tradizione mette a disposizione. Non si tratta di conoscenza da memorizzare per farne sfoggio dialettico e retorico. Tutto ciò non può e non deve essere un diletto intellettuale fine a se stesso o per persuadere. Questa conoscenza deve costituire un modo di essere, uno stile di vita e non un mero apparire. Con l’esperienza iniziatica, l’Amante di Sophia, l’Advaitin, il Templare, il Fedele D’Amore, il Sufi, il Rosa+Croce, l’Alchimista, il Taoista, il Libero Muratore, realizza il Sé.

Tutte le tradizioni rappresentano nel loro patrimonio culturale tre fasi della Realizzazione.
Queste consistono in: un processo di discesa nel intimo di se stessi o penetrazione coscienziale, fase in cui avviene il riconoscimento e la purificazione del sé, alleggerito dalle proiezioni egoiche prodotte dall’io accentratore e autoreferenziale; da questo precedente momento preparatorio si passa allo stadio di assorbimento e assimilazione in cui si giunge ad essere conformi all’insegnamento tradizionale, fase che permette l’espansione della coscienza e questa ormai libera dalle false identificazioni, le illusioni dell’io e del mio si trasforma da coscienza individuale in coscienza universale; si giunge così alla fase di identificazione con la Verità. L’Essere, definitivamente libero (jīvan-mukta), divenuto Autorisplendente, è come un sole radioso in cui non vi è più distinzione alcuna tra luce, fuoco e materia ardente: è il Puro Sé.   "Si diventa ciò che si pensa, questo è l’eterno mistero", recita la Maitry-upanişad, affermando il principio d’identità iniziatica.

Il lavoro iniziatico, dunque, nella sua essenza consiste nel, costante, incessante, ritmato e armonico lavoro di purificazione e sublimazione del sé. Si tratta di un continuo lavoro di liberazione dell’Essere puro che si nasconde sotto le scorie della mentalità profana, fino a condurre l’individuo dall’apparire, ovvero dal divenire, all’Essere, dalle tenebre alla Luce.
L’iniziazione, anche se per esigenza umana si pratica in comunità, è un’esperienza, unica e irripetibile, diretta e personale, intima e ineffabile. Non vi è altro modo per fare tale esperienza che quello di viverla in prima persona. Nessuno saprebbe descrivere razionalmente questa esperienza, se non come diceva Platone, attraverso discorsi probabili. Nessuno può sostituirsi a noi nella soluzione dell’eterno mistero.

Giuseppe Vinci

venerdì 19 febbraio 2010

Rosa Mystica


“Della rosa fronzuta diventerò pellegrino ch’io l’aggio così perduta. Perduta non voglio che sia Ne di questo secolo gita, ma l’uomo, che l’ha in balia di tutte gioie l’ha partita.” (Federico II Imperatore)

La Rosa è uno dei più remoti e universali simboli iniziatici.
Per cogliere davvero il senso paradigmatico della Rosa è bene dimenticare il Medio Evo dipinto di nero, oggi tanto di moda, anche perché è in quest’epoca che tale simbolo ebbe la sua giù grande diffusione. La “Rosa”, se considerata dal punto di vista profano, si allontana fatalmente dal suo senso mistico e trascendente fino a perdersi, senza che se ne possa cogliere il senso più profondo.
Essa è il simbolo dell’anima che dopo il percorso di discesa, dopo aver abbandonato la zavorra accumulata nel mondo, si avvia alla risalita.
La Rosa è il simbolo dell’amore, dell’Amata - l’anima - e dell’Amante - l’Essere Supremo - desiderosi della mistica unione. E’ la piccola anima umana, parte infinitesima della Grande Anima, che cerca la via di ritorno alla “stanza” o Casa del Padre, dove avverrà la mistica unione.
L’immagine della stanza evoca le Nozze chimiche di Christian Rosenkreuz, che fa di questo fiore un simbolo universale.
L’Amore per la Rosa che sospinge l’amante alla mistica unione rappresenta e realizza l’annullamento di ogni dualità e contrapposizione u-mana e terrena. Gli opposti, i complementari svaniscono per sublimarsi nell’Uno al di là dell’Uno, nell’archetipo di platonica memoria.
Agli stilnovisti, ai Fedeli d’Amore, come anche ai poeti siciliani, a Federico II, la Rosa giunge da Oriente, da Soria. Per la tradizione arabo-orientale la rosa è il simbolo di un percorso metafisico realizzativo pratico, che mira alla trasformazione profonda della coscienza. Per i Sufi della Ba-gdad del XII sec. questo sentiero mistico era chiamato “Sebil-el-Uard” ov-vero la “Via della Rosa”.
In realtà la Rosa per l’occidente rinascimentale rappresenta un ritorno alle origini del cristianesimo iniziatico dei primi secoli, per il quale la Rosa è anche il simbolo del cuore. La ritroviamo, infatti, nei primi Rosa+Croce agli albori del medioevo e nei successivi Manifesti dei Rosa+Croce del ‘700, ma anche in tutti i mistici cristiani. La dottrina originaria indica la sovrapposizione della Rosa alla Croce quale mezzo per il raggiungimento dell’unione, stigmatizzata dal saluto della confraternita: “Possa una Rosa fiorire sulla tua Croce”.
La croce, intersezione delle due rette, orizzontale e verticale - simbolo degli opposti, dei complementari - centro segreto al di là del tempo e dello spazio, è sublimata dalla Rosa. In questo centro invisibile, metafisico, si realizza l’unione, l’armonia/trascendenza individuale, che con la sovrapposizione della Rosa si trasforma in armonia/trascendenza universale. Ma la via dell’Unione non è un percorso che possa compiersi impunemente o con facilità. Lungo il Sentiero Realizzativo l’amante desideroso dell’Unio Mystica deve dimostrare di avere coraggio, cuore puro e purezza d’intenti per poter accedere a questa conoscenza. Deve superare una serie di prove e ostacoli che sono propedeutici di una vera e propria disciplina iniziatica.
La “Via della Rosa” è, insomma, un percorso di disciplina interiore per domare e purificare la mente, poiché “solo una mente pacificata e pura può risolversi nella pura coscienza”.
Pur attraverso un simbolismo differente, nella “Gita” Krişna espone la stessa disciplina che conduce all’unione mistica:

“Nell’unione dello Yoga la libertà è sovrana; è la liberazione dall’oppressione del dolore. Questa disciplina deve essere seguita con fede, con animo fermo e coraggioso. ( … )
E’ vero, o Arjuna, che la mente e senza quiete e non è facile domar-la. Ma nella pratica costante e nel distacco dalle passioni, anche la mente può essere dominata. Quando la mente non è in armonia, è difficile realizzare questa unione divina, ma l’uomo la cui mente è pacificata la può realizzare, purché si dedichi con tenacia alla conoscenza”. (Bhagavad-GitaVI -23/35/36)

Per cogliere la Rosa nella sua essenza occorre uscire dal turbinio e dalla vanità della vita profana consapevoli, per gradus, che il prezzo dell’unione è il rischio di morire. Le figure e le immagini allegoriche che si trovano sul percorso, inoltre, confondono chi non sa penetrare il simbolo, deviandone il senso del percorso fino a smarrirlo in eterno, giacché dietro l’apparente amore profano si nasconde il ben più prezioso ed anzi inestimabile amore sacro.

Questo linguaggio trasparente solo in apparenza e i simboli a volte chiari e a volte oscuri sono invece, per coloro che si consacrano agli studi iniziatici, il viatico che conduce all’intelligenza delle cose divine.
Dice Plutarco: “Con questo procedimento noi possiamo tener testa a tanta gente grossolana … Il popolo, ascoltando tali cose, è soddisfatto e presta fede a tutto questo, perché desume plausibile direttamente dalle cose ovvie e familiari … In verità, costoro non differiscono per nulla da quelli che credono vele, gomene e ancora, né più né meno che il pilota stesso; ovvero ordito e trama né più né meno che lo stesso tessitore …”.

Nel Roman de la Rose, poema provenzale di Guillaume de Lorris della metà del ‘200, fra l’amante e la Rosa si frappongono una serie di ostacoli, figure e immagini allegoriche che ne deviano e rallentano il percorso: così le dieci orrende figure sul muro del Giardino, i danzatori della carola, il dio d’Amore con le frecce dalle opposte potenze e i suoi comandamenti, Pericolo, Gelosia, la fonte, Narciso, il castello e l’alta torre costruita sulla roccia viva ... Contro tutto ciò deve combattere il desideroso d’Amore che brama di poter cogliere il tenero bocciolo al termine del percorso e godere della sua Bellezza. Ecco l’innamorato del “Roman de la Rose” al termine della sua ricerca una volta conquistata la Rosa:

“Mi parve allora d’esser caduto
in paradiso dall’inferno orrendo …
… E si slanciava il fiore
verso l’alto, ed io fui lieto
nel non vederlo ancora così aperto
da disvelare il cuore,
anzi, che quello era ancor chiuso
entro i petali della rosa
che si levavan dritti verso il cielo
avvolti attorno al loro profondo centro:
da tale velo occultato
il seme era difeso dagli sguardi.
Era la rosa Dio la benedica!
così innalzata, assai più bella
di quanto fosse prima, e più vermiglia.
Ed io venni rapito in meraviglia
innanzi a tanta nuova leggiadrìa
nella sua pània Amore mi lega,
sempre più forte, indissolubilmente
mentre a me pare d’averne sempre più piacere”.

Come Beatrice per Dante, così per Guillaume de Lorris la Rosa è il simbolo della Sapienza Santa, della pura conoscenza intellettuale a cui l’iniziato perviene dopo aver sgombrato l’anima dalle sozzure della vita animale, fino a far cadere il velo che oscura la vista dell’occhio interiore. Nella Divina Commedia, infatti, Dante giunge al Paradiso passando per la Rosa Mistica, che rappresenta quindi il passaggio o meglio la transizione, il trascendimento necessario all’uomo per giungere al perfezionamento finale.
Il simbolo erotico della Rosa, ancora, è analogo al simbolo cavalleresco e religioso del Graal, poiché la Rosa è simbolo dell’amore spirituale e della massima elevazione della conoscenza intellettiva, di quella completezza e perfezione che gli stilnovisti chiamarono Intelletto d’Amore. Raggiungere e possedere la Rosa equivale quindi a raggiungere e a ottenere il fine ultimo della Ricerca, in quanto l’Amore è annullamento della dualità.

Per gli Alchimisti è la “rossa pietra filosofale”: il Magistero, nella Lingua Alata, che permette di trasformare il vile metallo in Oro e di contemplare il Creatore in ogni particella dell’universo. Sì, perché gli esseri sono il segno vivente del Creatore e il cammino iniziatico è il percorso che permette di svelare negli esseri la Luce Divina.

La Rosa e il suo linguaggio simbolico hanno perenne validità. Essi non si fondano sulla storia e sulle apparenze come sulla vanità, non necessitano di falsi orpelli, ma provengono dalla Tradizione Sacra, metastorica e metafisica, alla quale hanno attinto tutti i popoli: così per la letteratura cortese e cavalleresca dell’Islam dei Sufi, del Medio Evo cristiano e dei Tantra indù.

Conoscenza e Iniziazione nella Scuola Pitagorica



Conoscenza e Iniziazione nella Scuola Pitagorica
(Relazione del Convegno)
Prof. Enzo Ferrari

Premessa
Conoscenza e iniziazione, sul piano puramente terminologico, sono concetti diversi, significando il primo l’oggetto dell’atto del conoscere ed il secondo una possibile modalità con cui si conosce.
I due concetti si coniugano quando, per accedere alla conoscenza, sia richiesto di essere iniziati ad un metodo o ad un linguaggio, in tal modo restringendo la cerchia dei fruitori del conoscibile.
A partire da Aristotele, un sistema di conoscenza è definito “acroamatico” se, anziché essere divulgato erga omnes (conoscenza essoterica), venga riservato a destinatari ben individuati realizzando una forma di conoscenza esoterica, che gli antichi sapienti preservavano con la trasmissione orale. Pure nel linguaggio attuale si dice riferita “all’orecchio” una comunicazione che debba rimanere segreta e sconosciuta a chi non l’ha ricevuta.
Oggi la conoscenza esoterica non ha più motivo di essere acroamatica, giacché la tecnologia consente in vari modi di divulgare la parola pronunciata al pari di quella scritta. Non è più la modalità della comunicazione, ma il valore intrinseco del conoscibile a caratterizzare la conoscenza iniziatica, che si impernia sul "segreto" da non intendere più come limite alla conoscibilità bensì come secretum (da secernere), nel senso della conoscenza che, sintetizzandosi nell'interiorità di ciascun individuo, richiede un percorso iniziatico affinchè lo stesso individuo sia in grado di attingerla.


La Scuola pitagorica e la figura di Pitagora
Nel VI secolo a.C. la città di Crotone vide fiorire una scuola filosofica ospitata nella “Casa delle Muse”, una costruzione in marmo bianco circondata da giardini e portici all’interno delle mura cittadine, nella quale il Maestro parlava ai discepoli celandosi alla loro vista, occultato da una tenda. Il Maestro proveniva da Delphi, dove aveva interpellato l’oracolo apprendendo di essere stato predestinato da Apollo a trasmettere il suo sapere in terra magnogreca.
Nelle città ioniche dilagava la tirannia, ma dalla Casa delle Muse i cittadini crotonesi ricevettero l’irradiazione di una sapienza tale da portarli a scegliere una forma di governo aristocratico espressa da quella stessa sapienza. Pare che sulla porta della Scuola vi fosse una lapide che recitava: “colui che non sa ciò che è necessario che egli sappia, è bruto tra cose brute; colui che non sa più di quanto gli è necessario, è uomo tra cose brute; colui che sa tutto ciò che può essere saputo, è dio tra gli uomini”.
Del Maestro poco sappiamo; alcuni storici ne hanno persino messo in dubbio l’esistenza, mentre biografi antichi gli attribuiscono natura semidivina e la capacità di compiere prodigi, tra cui guarire dalle malattie. Abbiamo un nome: Pitagora, che giunge fino a noi come quello di uno dei sapienti greci che animarono la filosofia presocratica, con lo specifico merito di avere fatto assurgere la matematica a scienza, chiave per la comprensione dell’esistente. Di Pitagora parla Eraclito, che polemicamente lo definisce “erudito”, così come non ne ignora l’esistenza Aristotele, il quale dà conto di alcune leggende divenute note dopo la sua morte che, accentuando il carattere religioso della sua figura, alimenteranno quel movimento neopitagorico misticheggiante che si esprimerà nelle opere di Numenio e Giamblico per confluire, poi, nel neoplatonismo.
Nessuno scritto, nessun frammento attribuibile a Pitagora è conosciuto, ma ciò viene spiegato col fatto che egli non scrisse mai nulla, affidando il suo insegnamento alla sola espressione orale e vietando ai suoi seguaci di scrivere, o anche soltanto di parlare con estranei, delle sue teorie.
Della sua biografia non si hanno certezze, possiamo solo riferirci a dati probabili che lo indicano nato a Samo intorno al 575 a.C., frequentatore degli insegnamenti di Talete e Anassimandro, allievo di Ferecìde di Siro detto il Saggio, con il quale avrebbe viaggiato nelle isole del mar Egeo e in Asia minore venendo iniziato ai sacri misteri dei templi greci. Nel 548 a.C., morto il maestro, avrebbe frequentato circoli sacerdotali e magici in Egitto e in Babilonia, prima di stabilirsi a Crotone. Anche sulla sua morte si hanno versioni discordanti: secondo alcuni sarebbe morto nel 490 a.C. a Metaponto, dopo esservi riparato a seguito di rivolgimenti politici nel governo crotonese, mentre secondo altri da Metaponto, dove si sarebbe rifugiato per sfuggire alla vendetta del nobile crotonese Cilone (al quale sarebbe stata rifiutata l’ammissione alla Scuola), fece poi ritorno a Crotone e vi sarebbe vissuto fino all’età di cento anni.
Il mito narra che Pitagora, facendo un viaggio nell’Inferno, aveva veduto l’anima di Esiodo attaccata con catene ad una colonna di bronzo e quella di Omero appesa ad un albero circondato di serpenti, in castigo di tutte le invenzioni ingiuriose alla divinità di cui sono pieni i suoi poemi. All’istante del suo ritorno dall’Inferno, egli sapeva perfettamente tutto ciò che era avvenuto sulla terra durante la sua assenza e ne fece esatto e dettagliato racconto alla meravigliata moltitudine. Leggendario l’episodio che lo vide, alla domanda del tiranno di Fliunte, Leonte, che gli chiedeva “chi sei?”, rispondere “sono un filosofo” pronunziando per la prima volta nella storia questo termine. Significativo anche l’episodio in cui gli fu richiesto cosa gli uomini facessero di simile a Dio: egli rispose “quando esercitano la verità”.
La Scuola pitagorica sarebbe stata da lui fondata nel 520 a.C. sull’esempio delle comunità orfiche e delle sette religiose d’Egitto e di Babilonia, per impartire insegnamenti che esigevano un lungo periodo di tirocinio molto rigoroso da ascoltare in silenzio, quali “acusmatici”, prima di essere ammessi ai segreti più profondi come “matematici”. Particolare interessante, e notevole per il contesto sociale dell’epoca, è che nella Scuola fossero ammesse anche le donne.
Una sommossa popolare provocata dal partito democratico determinò la cacciata da Crotone dei Pitagorici e l’instaurarsi di varie comunità pitagoriche nel mondo ellenico e nella Magna Grecia. Fra le più celebri quella di Archita di Taranto, vissuto nel IV secolo, uomo di straordinaria vastità e modernità di interessi, ricordato come tale da Platone nella VII Epistola. Ma ancora più importante quella che Filolao di Crotone fondò a Tebe nella seconda metà del V secolo, cui si deve la conoscenza dei contenuti della filosofia pitagorica, avendo egli contravvenuto al divieto di scrivere, sicché ci sono pervenuti vari frammenti che, potendoli raffrontare con quanto riferisce Aristotele sui principi pitagorici (oltre che con svariati riferimenti che si ritrovano in vari autori dell’antichità greca e latina), costituiscono la base principale per ricostruire la dottrina di Pitagora.


La dottrina pitagorica
Secondo questa dottrina i numeri sono il principio di tutte le cose. Essi esprimono la chiave senza la quale nulla sarebbe possibile pensare né conoscere.
Ogni numero, quale insieme finito di più unità, è un costituente fisico elementare delle cose ed obbedisce ad una legge, che potremmo definire dualistico-oppositiva, allo stesso tempo legge di formazione dei numeri e legge di formazione delle cose. L’opposta struttura dei numeri dispari e di quelli pari, infatti, rivela un’antitesi che può assumersi a principio di una serie di altre nove opposizioni che spezzano il mondo in due: limitato-illimitato; uno-molti; destra-sinistra; maschio-femmina; luce-tenebre; buono-cattivo; immobile-mobile; retto-curvo; quadrato-rettangolo. In tali opposizioni coesistono carattere fisico e carattere morale, in una molteplicità di significati che conferiscono ad alcuni numeri valore magico-simbolico. La contemplazione dei numeri costituisce un passaggio essenziale della purificazione che, per quanto si dirà più avanti, formava il fine principale dell’insegnamento pitagorico.
Aristotele indica alcuni ambiti nei quali, secondo questo insegnamento, il numero esprime la regola della realtà. Ad esempio, la “giustizia” è data dal 4 e dal 9, ossia da numeri che, in quanto quadrati del primo numero pari o del primo numero dispari, ripropongono quella reciprocità nello scambio in cui essa consiste. Le “nozze” corrispondono al numero 5, essendo la somma del primo numero dispari (il 3) con il primo numero pari (il 2), dal momento che l’uno, servendo a generare sia i numeri pari che i dispari va considerato come “parimpari”. Nello stesso tempo il 5 rappresenta vita e potere nella raffigurazione della stella a cinque punte iscritta nel pentagono, assunta a simbolo della stessa Scuola pitagorica.
In alcuni casi i Pitagorici perseguivano il loro intento di connettere tutto a un numero o alla proprietà di un numero, come osserva maliziosamente Aristotele, al punto che se qualche cosa mancava, si sforzavano d’introdurla perché la loro trattazione fosse completa. Ne sarebbe esempio l’invenzione dell’Antiterra, il pianeta invisibile, per portare a dieci il numero degli astri allora conosciuti e comporre così la perfezione del cosmo. Al riguardo la concezione pitagorica si presenta estremamente interessante, fino a precorrere di oltre duemila anni la rivoluzione copernicana, rappresentando una concezione del cosmo non geocentrica bensì costituita da un universo al cui centro è situato un immenso fuoco, intorno al quale ruotano dieci astri con velocità e distanze i cui rapporti sono i medesimi che regolano gli accordi musicali, anch’essi espressi da numeri.

La tetraktis e l’iniziazione
Il numero 10 rappresenta la perfezione. Esso è formato dalla somma dei primi quattro numeri (1+2+3+4), contenente in eguale quantità il dispari (3,5,7,9) e il pari (2,4,6,8), numeri primi (2,3,5,7) e numeri composti (4,6,8,9), sottomultipli (2,3,5) e multipli (6,8,9). La perfezione del 10, giustificata da ragioni strettamente matematiche che lo pongono a fondamento del sistema decimale, ne esprime la sacralità, rappresentata dalla tetraktis, triangolo equilatero il cui lato è costituito da 4 punti e la cui composizione complessiva è data da 10 punti.
E’ noto l’influsso che lo stesso triangolo ha avuto nell’iconografia paleocristiana, che lo ha rappresentato con un occhio al centro. La tetraktis contiene l’intero universo, del quale è rappresentazione geometrica: l’1 è il punto geometrico, 2 sono i punti necessari per individuare una linea, 3 i punti necessari per individuare un piano e 4 per individuare un solido. Partecipa della stessa natura degli altri numeri, essendo un insieme di unità, la cui proprietà elementare è quella di consistere in quantità reali, in cose e non pure astrazioni, sicché come di ogni numero si può ricavarne la rappresentazione geometrica, ma nel contempo la tetraktis è l’unico numero-figura geometrica che, in quanto perfetto, rappresenta il sacro.
Pare che su di essa venisse prestato il giuramento di adesione alla Scuola pitagorica. Questo giuramento, che presuppone un segreto e l’impegno vincolante a preservarlo, nel momento in cui è prestato su un simbolo sacro assume esso stesso significato sacrale. Se per essere iniziati è richiesto un giuramento siffatto, l’iniziazione stessa assume valore sacrale essendo legata ad un simbolo che, nella sua sacralità, contiene l’intero universo conoscibile.
Ne possiamo ricavare che conoscenza e iniziazione, nella tradizione pitagorica, assumono il significato di un binomio inscindibile, non potendosi concepire un accesso al sapere che non sia iniziatico né, viceversa, una forma di iniziazione che prescinda dal sapere e dalla scienza. E’ meno chiara la differenziazione che sul piano iniziatico riguardava la distinzione fra acusmatici e matematici, posto che se ai secondi erano riservati i più profondi segreti, ai primi era comunque consentito l’ascolto in silenzio e non di tutto ciò che il Maestro diceva. Tuttavia pare che la differenziazione fosse netta sul piano dei comportamenti, potendo solo i matematici vivere all’interno della Scuola spogliandosi di ogni bene materiale, laddove gli acusmatici non erano invece tenuti a privarsi delle proprietà e a vivere in comune. Una sorta di distinzione tra religiosi e laici, con diverse modalità di accesso alla conoscenza, ma con la condivisione degli stessi principi iniziatici, se è vero che col passare del tempo si accusarono vicendevolmente di non essere i più autentici interpreti della parola del Maestro, al quale per la prima volta venne riferita l’espressione ipse dixit (che, ancora oggi, sta a significare l’indiscutibilità di un pronunciamento autorevole).

La conoscenza e il dogma
Sembra quindi potersi ritenere che a fronte della necessaria iniziazione per aspirare alla conoscenza, il binomio inscindibile abbia a modularsi su diversi livelli conoscitivi e che questa modulazione debba essere rappresentata da un sapere, che procede per gradi di approfondimento, di una verità assoluta ed indiscutibile.
Che si tratti di un sapere iniziatico non può dubitarsi già per il solo fatto che esso è trasmesso oralmente, abiurando lo scritto, ma il senso dell’affermazione non può rimanere solo nel suo valore acroamatico. La dimostrazione che potremmo definire storica (non in senso storiografico, ma di accadimento narrato anche se non comprovato) del valore iniziatico degli insegnamenti pitagorici è data dalla vicenda che colpì Ippaso di Metaponto allorché, cacciato ignominiosamente dalla Scuola per avere rivelato la natura delle grandezze incommensurabili, gli venne eretta una tomba come ad un morto. La vicenda di Ippaso è emblematica del significato e del valore della conoscenza propugnata dalla Scuola pitagorica.
Come si è visto la realtà dei numeri è fatta di entità composte da un insieme finito di unità e quindi la conoscenza può essere espressa solo con i numeri interi, non anche con i numeri irrazionali. Ciò comporta che, non potendosi aggiungere ad un numero nulla che sia minore dell’unità, l’accrescimento di una grandezza debba procedere per “salti discontinui”. Non a caso la scienza pitagorica, identificata come una matematica del discontinuo, viene considerata l’anticipazione della moderna teoria quantistica.
E’ noto che in base al Teorema di Pitagora la somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa. Applicando il Teorema ad uno dei due triangoli isosceli in cui è diviso un quadrato, si dimostra che il lato e la diagonale di tale quadrato non possono avere alcun sottomultiplo comune e pertanto sono incommensurabili. Sennonché, supponendo che un segmento sia generato dall’accostamento di una serie finita di piccoli punti, ne risulterebbe che uno di questi punti verrebbe contenuto un numero finito di volte sia nel lato, sia nella diagonale, che conseguentemente avrebbero un sottomultiplo comune contraddicendo la dimostrazione derivante dal Teorema. La incommensurabilità delle grandezze esige quindi che esse siano costituite da una infinità (e non da un insieme finito) di punti. Dal che si ricava che la discontinuità, se è connaturale alla aritmetica, non può estendersi alla geometria e quindi non può dirsi proprietà comune di tutta la matematica.
Questo segreto fu custodito gelosamente dalla Scuola per diverso tempo, finché Ippaso di Metaponto lo divulgò ponendosi a capo degli acusmatici in una sorta di rivolta contro il dogmatismo che gli valse l’espulsione e la morte simbolica.

L’anima e il corpo
Ma la conoscenza perseguita dai Pitagorici attraverso l’iniziazione può realmente definirsi dogmatica?
Per rispondere al quesito dobbiamo porre attenzione ad un altro aspetto essenziale del pitagorismo, fin qui volutamente trascurato, ma necessario per comprendere meglio quanto si è già detto, in merito al rapporto anima-corpo.
Se da un lato l’anima veniva concepita come “armonia” del corpo, nello stesso senso in cui si può parlare di armonia dei suoni emessi da uno strumento musicale o di armonia data dalle proporzioni di una scultura (e cioè con modalità misurabili attraverso l’aritmetica), dall’altro se ne propugnava la natura immortale contraddicendo il carattere finito dei numeri e la natura mortale del corpo. Un frammento di Alcmeone, esponente di una importante scuola di medicina fiorita a Crotone nello stesso periodo della Scuola pitagorica, afferma che “l’anima è immortale per la sua somiglianza con le cose immortali… la luna, il sole, gli astri”. Il rapporto anima-corpo va inteso, dunque, come una delle opposizioni dualistiche in cui l’esistenza si spezza e la cui armonia è data dalla proporzionale coesistenza degli opposti.
Si è anche ipotizzato che i Pitagorici ammettessero due anime: una costituita dal temperamento psichico, legato indissolubilmente al corpo e destinato a morire con esso, l’altra da un principio immortale. La concezione dell’anima immortale deriva da credenze religiose orfiche, secondo le quali l’anima è un demone che, per una colpa originaria, è stato condannato a incarcerarsi in un corpo al quale sopravvive per incarcerarsi ulteriormente, in un ciclo di reincarnazioni che ne garantiscono la purificazione e l’espiazione della colpa, al fine di potersi ricongiungere con l’elemento divino dal quale proviene. Se per gli orfici le purificazioni corrispondevano a pratiche ascetiche e rituali, per i Pitagorici coincidevano con l’esercizio della scienza attraverso il viaggio iniziatico della conoscenza.
L’ipotesi dell’esistenza di due anime, delle quali una mortale, pone il problema della relazione fra esse, visto che la colpa di cui è caricata l’anima immortale può essere riscattata solo attraverso la purificazione di quella mortale. Il demone che si incarna entra necessariamente in contatto con l’anima che appartiene al corpo, riuscendo a progredire nel processo di riscatto dalla colpa solo se l’anima mortale intenderà perseguire la purificazione, con l’esercizio della scienza e la vita iniziatica, nel rispetto di regole e pratiche nella vita quotidiana.
Il “modo di vita pitagorico” fu altamente lodato da Platone per la sua unione di teoresi e ascesi. Ad esempio la considerazione che la trasmigrazione da un corpo ad un altro (la metempsicosi) esponesse al rischio di mangiare la carne di un animale nel quale si fosse incarnata un’anima, imponeva il divieto di consumare carne e la regola vegetariana; tuttavia questa regola era obbligatoria solo per i matematici e non per gli acusmatici, riflettendo la modulazione in diversi livelli della conoscenza, della quale si è detto.
Proprio questa modulazione, a ben vedere, fonda la delegittimazione della tesi secondo cui quello pitagorico era un sapere dogmatico basato sull'ipse dixit magistrale. Il dogma è affermazione di verità assoluta che si impone a tutti nella pretesa che debba essere recepita acriticamente. La conoscenza pitagorica, invece, è conoscenza iniziatica rispetto alla quale la ricerca individuale costituisce l'espressione della massima libertà animata dal desiderio di sapere. L'ipse dixit magistrale non è altro che una guida nel viaggio iniziatico della conoscenza.


Conclusioni
La grandezza della Scuola pitagorica, più che nell’analisi scientifica che essa ha condotto ben collocata nel contesto culturale del suo tempo, acquisendo uno spazio significativo nella filosofia presocratica, risiede nelle intuizioni che fanno del pensiero pitagorico un precursore della modernità. Il rapporto tra continuo e discontinuo, considerato uno dei più astrusi labirinti della ragione, continua ad essere ancora oggi un problema molto difficile e dibattuto. La concezione sferica del cosmo, antesignana della scoperta dello spazio curvo, precorre l’attuale concezione dell’universo pulsante con la previsione di un fuoco centrale dal quale il cosmo stesso è nato ed al quale deve fare ritorno per nascere un’altra volta. Non ultima la teoria del rapporto tra corpo e anima, che racchiude in embrione prospettive rivelatesi solo dopo la scoperta dell’inconscio e degli sviluppi della psicanalisi. Non sappiamo quante e quali ulteriori scoperte, anche in futuro, consentiranno una retrospettiva sulle intuizioni pitagoriche.
Il Pitagora ieratico, che la leggenda vuole parlasse nascosto da una tenda, più che la fonte di un dogma intangibile, alla luce delle considerazioni svolte, appare l’incarnazione di un demone che, nascondendo il corpo in cui è imprigionato, compie un gesto simbolico al quale gli astanti possono ispirarsi per compiere quella purificazione che solo attraverso l’iniziazione individuale potrà portarli a scoprire l’anima imprigionata nel proprio corpo.
A distanza di 2500 anni il Maestro ancora ci parla. Non lo vediamo, è dietro la tenda. Possiamo sentirlo, non perché ci venga dogmaticamente imposto, ma solo se lo vogliamo, con libera scelta. Ascoltiamolo: Egli ci dice che conoscenza ed iniziazione sono la stessa cosa e che non vi sono verità da svelare dietro la tenda, ma in ognuno di noi è racchiuso un segreto per il quale vale la pena di vivere e di cercarlo.